Questo articolo è stato scritto durante i tre giorni a Zanzibar tra Natale e Capodanno. Mi sono reso conto che non vi ho mandato recentemente aggiornamenti su dove sono e cosa sto facendo. Mi sono spostato nell’interno, in un villaggio Maasai. Lunedì si comincia a lavorare a scuola sul serio. Vi aggiornerò quanto prima.
C’è una differenza fondamentale tra Zanzibar e Dar Es Salaam. Innanzitutto, sbarcando sull’isola (che si chiama Unguja), si nota subito che Zanzibar ha una storia e una cultura proprie, non solo nel senso che in Tanzania sono diverse, ma anche che la Tanzania, senza offesa, ha acquisito passivamente sia una serie di usi e costumi dai colonizzatori sia forse dei modelli culturali proposti più tardi e in altri modi, attraverso i media e il commercio globalizzato. A Dar non si prova la sensazione di rispetto dovuto alla storia di una grande civiltà. A Zanzibar sì, anche se non come, per citare un altro esempio che conosco, in Marocco. Anche se forse è a sua volta una influenza coloniale, che noi però non conosciamo e registriamo come “più pura” perché non viene da noi, ma dagli arabi. In ogni caso, si vede più bellezza, girando per le stradine di Stone Town, mentre Dar, almeno per la parte che conosco io, si dedica interamente ad essere funzionale ed economica.
L’altra differenza fondamentale è che a Zanzibar gli stranieri sono ovunque, e di conseguenza la popolazione locale si è adattata a un modello economico costruito interamente in funzione del turista. Si è continuamente richiamati da una serie di venditori ambulanti, negozianti, tassisti, personaggi vari che, non avendo un lavoro fisso, cercano di portarti in giro, o di suggerirti un albergo in cambio di una mancia tua o dell’albergatore. Con tutto il rispetto per loro, questo a volte sembra impedire un rapporto sincero con gli zanzibarini.
Se a Mbagala i bambini ti chiamano “mzungu” e sono incuriositi dalla presenza di un bianco, intimoriti talvolta, qui, mi dicono, ci sono bambini altrettanto piccoli che parlano qualche parola di italiano. Un sacco di gente sa dire almeno qualche saluto nella nostra lingua.
Gli italiani sono arrivati qui per primi, una ventina di anni fa, con il modello turistico del villaggio vacanze, e le conseguenze sono queste. Benefico per l’economia, per carità, ma l’impressione che mi fa è certamente triste. In questi giorni non ho mai scambiato chiacchiere con nessun europeo, con una sola eccezione: ho sentito una coppia di italiani che discuteva del fatto che sentire gli zanzibarini parlare italiano gli sembrava triste, e io mi sono girato per dir loro solo “condivido pienamente”.
Mi sembra sempre di dovermi scusare, anzi no, sento il bisogno di giustificarmi, di specificare che non sono parte di quelle comitive che per novecento euro la settimana, volo compreso, vengono catapultate qui direttamente dal Varesotto e dalla Brianza da cui non sono mai, almeno culturalmente, uscite. Che non sono in grado di relazionarsi con un paese musulmano, mangiano pastasciutta, non parlano nemmeno l’inglese. Per cui, il sogno della vita del venditore di quel buonissimo tè speziato è imparare l’italiano.
A Paje è pieno di bianchi ancora più che a Stone Town, e ci sono molti grandi alberghi e ristoranti che per il costo della vita locale sono estremamente cari. Tutto questo mi fa ancora incessantemente pensare al concetto di turismo e alle sue conseguenze. Ma soprattutto, mi chiedo quanto sia io in realtà diverso dai turisti dei quali parlavo prima, mi faccio a mia volta degli scrupoli. Non so se sia giusto sentirsi responsabili, e di sicuro una differenza dovrò pur esserci tra chi mangia pastasciutta nei villaggi (e non è un pregiudizio, ho conosciuto, in vacanze passate, gente che lo fa davvero) e il sottoscritto, che mette il cibo al numero uno delle attrazioni di un viaggio, assai sopra al mare, alle spiagge e ai musei. Però non posso fare una netta distinzione né parlare di “loro”, dei “turisti” perché non sarebbe onesto e sarebbe indubbiamente un atteggiamento altezzoso. Non so in realtà cosa ne pensino “loro”, né se davvero esistano dei “loro” nei termini in cui li descrivo io. Oltretutto, quando sono venuto qui la bellezza di quattordici anni fa (esatti esatti) aderivo esattamente a quel modello di vacanza.
Tra parentesi, di sicuro gli zanzibarini preferiscono un bravo italiano medio che compra i souvenir, va nei ristoranti per turisti eccetera: fa bene all’economia e alle loro tasche. Contenti loro, contento l’italiano medio, contenti tutti. Dov’è il problema? Me lo immagino io? Qualcosa continua a non quadrare.
Facevo discorsi di questo genere con il signor Hans Agdertenbos, un fotografo, insieme alla moglie tanzana, che ha abitato qui per otto anni, dopo aver vissuto anche in Zambia, Malawi, in Asia e non so dove altro. Non sono d’accordo con tutto quello che mi ha detto; su alcuni argomenti non so cosa pensare. Comunque, dice che vuole trasferirsi in Canada, perché non vuole invecchiare in un Paese dominato dalla corruzione fino ai più alti livelli del governo, fino ai ministri e al Presidente; dai trafficanti di droga che vendono cocaina ai turisti e riciclano il denaro sporco costruendo alberghi, e simili. Sostiene che l’Africa non dovrebbe ricevere aiuti allo sviluppo, dovrebbe capire da sola in che direzione vuole andare. (Ho protestato che negli ultimi anni gli “aiuti” non sono più, come una volta, versamenti in denaro che finiscono nelle tasche dei politici, ma sono offerti in termini di formazione – anche qui ci sarebbe da discutere). È vero che gli “africani” (anche se usare questa parola è un’enorme generalizzazione) hanno un atteggiamento passivo, che gli è costato la colonizzazione in senso culturale e che adesso gli sta costando l’arretratezza non solo nei confronti dei paesi sviluppati, ma di tutto il mondo: basta fare il paragone con la Cina o con il Brasile. Ho sempre pensato che l’unica via per uscire da questa condizione sia l’istruzione: sia quella tecnica, sia la cultura necessaria per capire la necessità di avere dei governanti onesti e così via. Ma mr. Hans sostiene che, per sua esperienza, spesso non sono affatto interessati, preferiscono fare a modo loro e farsi i loro affari come è sempre successo.
Se davvero è così, come possiamo noi giudicare questa scelta? Noi non siamo un modello positivo di sviluppo. Questa è la prima cosa da tenere a mente, e ci toglie l’autorità per giudicare. Anche aiutare con l’educazione è imporre un modello culturale estraneo? Non lo so.