Parakuyo

Non scrivo su questo coso dai primi di gennaio, cioè dai primi giorni dopo il mio arrivo a Parakuyo. La scusa principale è che internet era così lento là nel villaggio da costringermi a salti mortali per collegarmi al server di WordPress, che è scritto in un HTML moderno e quindi pesantuccio. Sono riuscito a pubblicare l’articolo sulla gita a Zanzibar solo dopo giorni di tentativi.

Non nego, naturalmente, che la ragione principale era la mia pigrizia, a cui ha considerevolmente contribuito il caldo atroce.

Al mio ritorno, talmente tanta gente, anche persone che non vedevo da anni, mi ha detto che mi aveva letto “fino a un certo punto” (ecco, la ragione è che dopo “un certo punto” non ho scritto niente), che mi è sembrato un peccato, perciò adesso, dopo un mese e mezzo dal mio ritorno, mi sento in dovere di fare un rapido riassunto.

La seconda metà della mia esperienza tanzana si è svolta in un villaggio dell’interno, nella regione di Morogoro. Colpisce immediatamente la differenza dalla città: Dar Es Salaam è una metropoli che non ha un’identità culturale propria, Parakuyo è abitato, al contrario, principalmente da persone di etnia Maasai, con le proprie tradizioni, che si manifestano in una lingua propria, nei riti di iniziazione tuttora in uso (non volete saperli), nel modo di costruire le case, nell’attività (si dedicano quasi esclusivamente alla pastorizia, senza coltivare nulla) e naturalmente nel modo di vestire, che è abbastanza caratteristico da essere a volte noto anche fuori dall’Africa:DSC_1401

I panni sono simili ma in tinta unita viola, blu o marrone per le donne. Gli uomini non escono di casa senza il bastone, oltre che, spesso, una mazza, un coltello e ovviamente il cellulare, che viene inglobato nelle pieghe della veste in un modo che non mi è chiaro.

A Dar Es Salaam, ad eccezione del centro, dove i turisti spesso passano, già era una sorpresa vedere un bianco sul daladala affollato o nell’incasinato mercato di Mbagala (un posto che mi manca molto); in un villaggio Maasai la visione di un bianco è abbastanza straordinaria da meritare che estraggano il telefono e mi scattino impudicamente una foto a bruciapelo. Nella zona centrale, comunque, sanno bene che ci siamo e cosa facciamo (io e i canadesi), ma questo non gli impedisce di fermarci ogni volta che commettiamo l’errore di passargli davanti, per poi sottoporci all'”interrogazione”.

L'”interrogazione” consiste in una sequela di saluti in Swahili (quando ti va bene, se no in Maa), che definisco così perché ognuno di essi ha la sua risposta particolare, e suscita ilarità rispondere “bene” a “ciao” o “ciao” a “come va”. A shikamoo corrisponde marahaba, a mambo si risponde poa, a habari seguito da una cosa qualunque si rassicura l’interlocutore con mzuri (bene) o salama (tranquillo), al più noto internazionalmente, ma meno usato hujambo (plurale hamjambo) l’unica risposta possibile è sijambo (plurale hatujambo, se te li ricordi tutti almeno hai imparato il presente indicativo negativo). Se poi, come facevo io ogni tanto, commetti l’errore di andare in giro con una kofia, dopo averti riso in faccia sceglieranno l’arabo as-salaamu ‘aleikum, cui si risponde wa ‘aleikumu as-salaam.

Per questo dico che ci si sente sempre un po’ sotto esame. Con una signora quarantenne, devo dire mambo o shikamoo? Boh!

Poi ci sono i bambini, che salutano gli adulti della loro tribù in un modo meraviglioso: chinano il capo, e l’adulto appoggia loro una mano sulla testa. Rasata, sia per gli uomini che per le donne, di qualsiasi età.

I bambini, per inciso, sono fantastici. C’è adorazione reciproca tra noi e loro. Scorrazzano liberamente ovunque anche quando a malapena parlano, e a sei anni badano da soli a una mandria di mucche.

Non aggiungo altro per il momento. Pubblico un paio di foto significative: il livello di fango raggiunto all’inizio della stagione delle piogge (andare a scuola, a un quarto d’ora di cammino, era un disastro) e il mercato di Morogoro, la città vicina (30 km per un’ora di bus abbondante). La seconda, secondo me, è una delle migliori foto che abbia mai fatto. I mercati sono dei posti meravigliosi. Varrebbe la pena di viaggiare per il mondo solo per visitare quelli.

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