Domenica 8 dicembre

Non avendo nulla da fare, oggi volevo andare a fare un salto a Mbagala, dove ci dovrebbe essere un centro internet. La tedesca mi ha detto che sarebbe andata a sua volta, quindi abbiamo preso il daladala insieme. Pioveva a dirotto, ma non ci siamo preoccupati perché normalmente vengono giù grandi secchiate, poi smette. Qui ci starebbe bene una scena come in “cent’anni di solitudine”, dove finalmente, dopo estenuanti trattative, decidono che un certo accordo varrà appena smetterà di piovere. Fine capitolo. “Piovve per sette anni tre mesi due giorni…” eccetera. Per farla breve il daladala ha guadato un certo numero di fiumi di fango prima dell’arrivo. Magdalena era invitata a visitare la casa di una sua collega maestra (lei insegnava in una scuola, che adesso è chiusa per le vacanze) e mi ha invitato ad andare con lei (gli africani non si formalizzano). Anche se sono stato abbastanza in imbarazzo, ne è veramente valsa la pena. Se già sulla strada dove arriva il daladala la gente ti guarda e sorride, un quarto d’ora di cammino dentro al villaggio tutti i bambini (e sono TANTI, questo è un paese FATTO di bambini) ti salutano e gridano “mzungu!” (bianco). Il papà della maestra ci ha accolto e salutato in swahili misto a qualche parola di inglese. Sono seguite ore in cui sono stato abbastanza zitto, intimidito dalla situazione nuova e dalla conoscenza nulla della lingua; i bambini del vicinato, però, che girano liberamente per le case, quando ci hanno visto, erano decisamente più intimoriti.

Alla fine, la maestra ci ha invitato a pranzo e noi abbiamo insistito per aiutarla a cucinare. Prima c’è stato un compromesso del tipo “ok, Magda mi aiuta ma Matino (hanno dei problemi con la R) guarda”, visto che probabilmente non è normale che un uomo cucini; poi però hanno apprezzato il fatto che fossi bravo a stendere la pasta… Così abbiamo imparato a fare i chapati alla maniera tanzana.

CHAPATI
Ingredienti: olio (loro usano quello di girasole), acqua, sale, farina bianca.
Mischiare acqua, olio, farina, fino ad ottenere una pasta di pane piuttosto umida. Stesa la pasta, spennellarla d’olio, tagliarla a listarelle, piegare il lato corto in due e arrotolare il risultato in modo da formare una “girella” delle dimensioni di un paio di noci. Preparare la carbonella (in mancanza, accendere il gas), stendere le noci di pasta col mattarello in modo da ottenere dei dischi tondi del diametro di una spanna. Mettere la piastra a scaldare sulla carbonella, poi cuocere da entrambi i lati; a metà cottura si piega il disco in due e si aggiunge un cucchiaio d’olio sulla piastra, poi si gira, cucchiaio d’olio, gira, cucchiaio d’olio, eccetera finché tutti i lati, che sono quattro perché l’abbiamo piegata in due, sono ben dorati. Il gusto è identico a quello delle piadine.
Qui mettono tutto il cibo pronto in contenitori termici, perché avendo spesso un solo fornello cucinano una cosa alla volta, e il cibo resta bollente per ore.

Poi ci siamo messi a lavare i piatti in cortile, e questo sì che ha causato lo stupore dei vicini! Ad un certo punto un ragazzo ci ha perfino fatto una foto con il cellulare, da quanto la cosa è più unica che rara. Adesso però vado a cena perché mi è venuta fame. Qui fa da mangiare una ragazza e noi tre volontari mangiamo in una casa vicino alla nostra con Lawrence, Joel (il capo dei volontari keniani) e chi altro è di passaggio. Per colazione, palline fritte di pasta di pane oppure di farina di mais, marmellata, té, latte o caffé; per pranzo o cena spaghetti, riso o UGALI (polenta bianca) con un sugo di carne, di verdure, una cosa verde tipo spinaci e frutta, di solito mango (ottimo) o arancia (pessima). Quando torno vi descrivo la casa della maestra e il suo villaggio, o cittadina, o quartiere, se lo consideriamo parte di Dar: è molto importante che vi dica questo, perché c’è il discorso ricchezza-povertà che è tutt’altro che banale.

(Ho mangiato ancora chapati con fagioli: i miei coinquilini riconosceranno un pranzo tipicamente vialindipendenzino) Nei villaggi nessuna strada è asfaltata, le case hanno il pavimento di cemento, i tetti sono sempre di lamiera. Spesso le costruzioni sono di mattoni fatti di cemento (non so come si chiamino) e non dipinte; quando piove le vie diventano dei torrenti di fango. Naturalmente non hanno l’acqua corrente. Noi chiamiamo la gente che vive in un posto del genere povera. Invece non lo sono necessariamente. Il padre della maestra ha un altro figlio che sta per finire medicina all’università, per esempio. La casa era decisamente curata, e grande: un salotto, una cucina e quattro o cinque stanze, più il cortile sul retro e la casa di fronte, che è di una delle figlie. Non parliamo poi dei nostri amici qui nel compound di Uvikiuta: uno mi ha detto di essere stato a Milano l’anno scorso e di voler andare a Roma, e so che è stato di recente in sudamerica. Naturalmente ci saranno anche persone che hanno a malapena i soldi per mangiare, e c’è senz’altro molta disoccupazione. Il discorso che voglio fare è che non avere l’acqua corrente non vuol dire vivere in una condizione priva di dignità. È un posto dove NESSUNO, o quasi, a parte in centro a Dar, ha l’acqua corrente. Peraltro, anche io e gli altri volontari siamo senza. Ma per tutta la vita è diverso? Io lo farei. Voglio dire, ci sono molte ragioni per cui non penso che vorrei passare tutta la vita qui, ma di sicuro l’acqua corrente non è una di quelle.

Il caldo è tremendo, comunque oggi ha piovuto tutto il giorno.